Ce lo ha raccontato Flaviano Zandonai, Innovation manager del Gruppo cooperativo CGM, che ha affrontato il tema del #futuro al bootcamp #VocediComunità per la rigerenazione urbana.
Perché le comunità sono oggi veri e propri agenti del cambiamento, e sono le uniche in grado di aiutare le istituzioni ad affrontare sfide, come quelle riassunte negli obiettivi di Sviluppo del Millennio dell’ONU, che non possono essere rinviate. Ma come? Facendo leva sulla ciò che più le contraddistingue: la diversità.
Perché “la differenza è l’elemento di valore del vivere insieme che consente di fare nuova economia e costruire una nuova società”. E solo le comunità sono in grado di processare la diversità perché “si fanno carico di coinvolgere non solo le persone che si assomigliano ma anche quelle che hanno visioni diverse, trasformando queste differenze in valore comune”.
Può esistere una comunità senza cultura? La risposta è semplice: no.
Perché la cultura, insieme al lavoro, alla tutela dei deboli, all’inclusione sociale, alla protezione dell’ambiente, è una gamba fondamentale delle comunità del futuro. Ed è anche l’abilitatore che ci consente di accrescere e diffonderne i valori.
Possiamo riassumere così l’intervento di Marisa Parmigiani, Head of sustainability and stakeholder management di Unipol Gruppo, al bootcamp #VocediComunità per la rigenerazione urbana. Ci ha raccontato come secondo una recente pubblicazione dell’Unesco la cultura concorra ogni giorno a raggiungere 12 dei 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile definiti dall’ONU.
Perché la cultura “è di per se stessa creazione di benessere”. E acquisisce ancora più valore “quando è capace di includere anche coloro che non la stanno cercando”. Persone che si scontrano con la cultura, desiderano nuova cultura e diventano comunità culturali.
Dai processi di rigererazione urbana nascono nuove comunità. E in queste comunità si sviluppa un nuovo tipo di volontariato.
Giuseppe Failla, consigliere di CSV Milano, lo definisce azione volontaria: un volontariato fatto soprattutto dai ragazzi, meno organizzato e legato a specifici progetti, come lo è stato per gli “accompagnatori” di Expo e per le tante azioni nate durante l’emergenza sanitaria.
Ma come per il volontariato tradizionale al centro dell’azione volontaria c’è il protagonismo trasformativo di chi la fa: la voglia di produrre un cambiamento nella comunità di appartenenza che sia il proprio condominio o il mondo intero.
Perché il volontariato è certamente un gesto di altruismo “ma è anche mosso da bisogni egoistici importantissimi. Le esperienze di volontariato hanno infatti un risvolto personale in chi lo esercita: accrescono l’autostima e permettono di acquisire competenze sociali, relazionali, professionali”.
Per noi una comunità che non è inclusiva non è una comunità.
Per questo #diversità è stata una delle parole chiave del bootcamp #VocediComunità per la rigenerazione urbana.
Ma nel concreto come si rende una comunità inclusiva e accogliente nei confronti della diversità? Ce lo racconta l’esperienza di @PlayMore!, il cui obiettivo è fare inte(g)razione attraverso lo sport.
Come ha spiegato Matteo Bruschera, responsabile dei progetti sociali di PlayMore!, “i progetti che sviluppiamo nel nostro centro sportivo nascono per far partecipare alla vita della comunità proprio quelle persone che ne sarebbero escluse: migranti, persone con disabilità, ragazzi e bambini che provengono da famiglie a basso reddito”.
Rigorosamente in gruppi misti, come mista deve essere la comunità nella quale crede PlayMore!
I gruppi di quartiere oggi si incontrano sui social, e attraverso il web contribuiscono a creare una comunità.
Come?
Ce lo ha raccontato Omar Degoli, animatore della Social Street Isola – Vita nel quartiere Lilla in occasione del bootcamp #VocediComunità per la rigenerazione urbana. La sua esperienza è quella di un gruppo che conta più di 5.000 membri dove “la più grande soddisfazione di chi partecipa è sapere che può dare un contributo apprezzato da tutti”. Come nel caso del falegname che ha aggiustato una panchina rotta da troppo tempo.
Ma ci trova anche molto altro:
La possibilità di realizzare concretamente progetti: dal gruppo di ping pong che utilizza i tavoli installati in una piazza riqualificata del quartiere, alle alleanze commerciali tra gli esercenti per offrire servizi nuovi.
Piccole consulenze per aiutare gli altri a fare anche le cose più semplici come inviare una mail.
Una piazza virtuale di scambi e riuso di oggetti e materiali.
Un antidoto contro la solitudine. E, soprattutto, ci trova relazioni che, come racconta Omar, spesso “sconfinano dal virtuale diventando fisiche e durature”.
Il lavoro è uno degli elementi cardine di ogni comunità. Per questo #lavoro è stata una delle parole chiave del bootcamp #VocediComunità per la rigenerazione urbana.
Ma qual è la relazione tra lavoro e comunità? E cosa si intende con lavoro sostenibile?
Roberto Mascali di Umana ha provato a spiegarcelo citando Primo Levi che ricorda come la migliore approssimazione della felicità sulla terra sia amare il proprio lavoro.
“La comunità – ci ha detto Mascali – è il luogo dove queste esperienze individuali di amore e realizzazione attraverso il lavoro si incontrano”.
E la realizzazione attraverso il lavoro è il primo elemento necessario affinché il lavoro sia sostenibile.
Insieme ad altri 4:
legalità
sicurezza
inclusione
formazione
Guada il video completo dell’intervento di Roberto Mascali.
Qual è il ruolo del paesaggio nel rendere le nostre comunità più vivibili?
Lo abbiamo chiesto ad Andrea Balestrini, Direttore del LAND Research Lab, in occasione del bootcamp #VocediComunità per la rigenerazione urbana.
“Lavorare con la natura significa ristabilire una scala umana nelle nostre città. (…) Il verde urbano è una componente fondamentale nel progettare comunità resilienti e vivibili perché consente di migliorare il clima ma anche il benessere di chi le abita. E la partecipazione dei cittadini è uno dei fattori chiave nel successo di questi progetti”.
Tre esempi concreti:
Piazza Gae Aulenti a Milano, oggi punto di incontro integenerazionale.
Krupp Park a Essen, un progetto di rigenerazione urbana che è diventato una comunità verde.
Parco del Lura a Lomazzo, una comunità verde per 4 comuni e uno spazio che protegge la città dalle esondazioni.
Guarda il video completo dell’intervento di Andrea Balestrini
Possiamo definire la provincia di Bergamo il primo epicentro occidentale della pandemia Covid-19: le scene dei convogli militari con le bare delle vittime hanno lanciato un grido d’allarme a tutto il mondo. Un dramma umano che ha lasciato delle voragini nel suo tessuto sociale e quindi anche nel suo denso mondo associativo, portandosi via centinaia di figure che lo avevano animato per decenni. Abbiamo chiesto a Johnny Dotti, pedagogista e imprenditore sociale che conosce e vive il territorio bergamasco, di analizzare il tema della comunità alla luce
degli stravolgimenti prodotti dalla crisi sanitaria.
Quali sono i cambiamenti che attraversano le comunità oggi, ai tempi dell’emergenza sanitaria? Pensando anche al possibile ruolo del volontariato nella ripartenza, che immagine ne ha ricavato dal suo peculiare punto di osservazione di imprenditore del Terzo settore, pedagogista, ma anche di voce proveniente da un contesto fortemente colpito dalla pandemia?
Quella che abbiamo vissuto oggi è una vera catastrofe, nel senso nobile del termine: un autentico trauma. I cambiamenti di per sé rappresentano sempre una discontinuità, che poi si riesce a sostenere attraverso delle risorse, dei vissuti che già esistono e che si trasformano dentro questa discontinuità. Vorrei sottolineare il fatto che abbiamo passato questi tre mesi grazie alle comunità, che invece erano state completamente sfibrate nei trent’anni precedenti, sulla scorta del mito dell’uomo che si faceva da sé, del prototipo virtuoso dell’imprenditore. Tutta la logica consumistica individuale, cosa è stata se non la negazione degli altri? Abbiamo invece visto in questi tre mesi che la comunità esiste, che la brace c’è ancora; l’abbiamo visto in tutti, l’ho visto nei miei figli. E non solo: la regressione dell’individuo aveva messo la comunità tutta sulla posizione dell’immunità; pensiamo ai populismi, in cui la comunità si presenta sempre come immunità, e pensiamo a come è difficile mettere insieme i gruppi, anche di eguali, come quelli del volontariato. Ebbene, noi abbiamo visto al contrario in questi tre mesi che l’uomo, di fronte alla chiamata della vita, risponde ancora all’altro uomo. La trovo una cosa molto bella, ma fragile, che potrebbe essere ancora annichilita. Il limite delle catastrofi e dei traumi è che, se non vengono elaborati, l’uomo non cambia. E la storia ci insegna che, generalmente, l’uomo va verso un cambiamento regressivo, fino a quando non c’è la consumazione totale data dalla consuetudine.
Quindi, nonostante la tragedia appena passata, pensa che possa esserci la speranza di ricostruire un mondo nuovo?
Sono convinto che questo secondo trauma, dopo la crisi economica del 2008, in una serie di persone, se ci riferiamo alle logiche che seguivamo nello scorso millennio, stia aprendo delle ricerche consapevoli. Ricerche che connettono un’esigenza di maggiore pienezza, di rotondità della vita, con le forme organizzative, economiche, politiche, sociali. È ciò che mi sta narrando la vita ora: alla prima uscita di casa, dopo i tre mesi di isolamento, sono stato chiamato ad intervenire ad un seminario di un collegio di ingegneri ambientali, e lì abbiamo parlato di sogno e alleanze. La cosa mi ha colpito molto perché non sono educatori, associazioni, istituzioni religiose, psicologi; percepisco un cambiamento reale in corso che riguarda anche persone, organizzazioni, comunità, professioni che noi abbiamo sempre pensato fare altro. E non si tratta di un caso isolato, ce ne sono diversi; sono stato anche a Roma, in Vaticano, e mi piace citarlo poiché testimonia che perfino alcune istituzioni si stanno seriamente interrogando sul loro cambiamento.
Lo colgo come un segnale positivo poiché la dimensione dell’istituzione è ancora altro rispetto a quella dell’impresa, che comunque nel mondo italiano fortunatamente può essere una realtà che continua un suo percorso di approfondimento.
E quali potrebbero essere, secondo lei, questi cambiamenti?
I segnali che colgo, a mio parere, ci dicono che i cambiamenti stanno avvenendo almeno a quattro livelli. Primo: è chiaramente in atto un cambiamento sociologico. Oggi siamo dentro un cambiamento tale che ha innalzato il fattore di rischio: la “società del rischio”, citando ciò che scriveva Ulrich Beck negli anni Ottanta, oggi presenta un ulteriore passo in avanti, e l’interpretazione di questo passo in avanti dipenderà dai soggetti.
Come potremo superare il rischio di essere ossessionati da potenziali disastri ed eventi devastanti?
Se i soggetti si lasceranno condurre, nella gestione del rischio, solo dalle forme tecniche più o meno scientiste, il futuro che ci attende sarà veramente pericoloso dal punto di vista sociologico. Se invece i soggetti sono in grado, assumendo la società del rischio e vivendo nella società del rischio, di inserirvi elementi di umanità, creatività, valore, allora si apre uno spazio interessante. Il secondo livello è il cambiamento dal punto di vista antropologico. Il costrutto sull’individuo che abbiamo teorizzato e abbiamo anche fatto diventare lo storytelling degli ultimi trent’anni oggi si sta sgretolando: antropologicamente ci stiamo accorgendo con dolore Comunità post virus che non siamo semplici individui e che la società non è una somma di individui. Anche questa medaglia ha due facce. Da un lato, ciò può portare, in termini personali, a crisi di panico e, in termini sociali, ad angosce che cercano un capro espiatorio.
Per esempio quali?
Ne vediamo i segni già oggi: ad esempio, nel mio territorio non abbiamo assistito a così tante risse come nell’ultimo mese. Sono risse violente con conseguenze pesanti, che avvengono quasi sempre fuori dai bar e quasi sempre coinvolgono giovani, in cui un branco si rivolge contro una persona e lo picchia per cause banali. Non posso generalizzare, ma sono certo che la questione dell’anomia individuale, dell’individuo che non si sente più il centro del mondo e, cioè dell’io che ha percepito oggi totalmente la sua fragilità (la sua mortalità qui dalle nostre parti) può condurre a derive di tali natura, fino a pensare a risvolti estremamente pericolosi. Ricordo che, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, ci fu la spagnola; fu l’incubatore, accanto alla crisi economica, del Fascismo e del Nazismo, cioè della crisi dei sistemi governativi. Lo dico non per spaventare ma per essere coscienti, e io credo che il volontariato debba essere cosciente: se perde la coscienza, può essere sostituito da un qualsiasi robot che effettua azioni meccaniche. Il secondo lato della medaglia è che tutto ciò può aprire alla dimensione tripartita o tridimensionale della persona, perché la persona è senso-sensazioni, sentimenti-intelletto e spirito, tutte e tre queste cose insieme. E, soprattutto, la persona è un nodo di relazioni: non si dà da sé, non è una monade persa nell’universo; la persona è un nodo integrato. Allora è interessante capire da che parte spingerà il volontariato, e non è scontato che spinga verso questa seconda direzione, quella del gusto degli altri, della condivisione dell’esperienza di sé integrata/integrale perché, se esso sta dentro il paradigma del funzionalismo e della concezione specialistica della società, spingerà senz’altro verso la prima.
Mentre il terzo livello?
Il terzo livello, è quello del cambiamento dal punto di vista spirituale. Io penso che il tempo monoteista sia finito; questo è il tempo della trinità. Noi rischiamo un irrigidimento monoteista, che è il rischio di cui parlavo prima e che vediamo in tanti dibattiti, oppure potremmo avere un’apertura spirituale, tipica tra l’altro del Cristianesimo. La trinità è apertura radicale, è io, tu ed egli, è maschio e femmina, è padre e madre, è amore infinito che si ripete soltanto dentro relazioni che hanno un senso.
E tutto questo come si combina con il fare volontariato?
Ci sono due risvolti per il volontariato. Primo, sarebbe molto bello che il volontariato cominci ad immaginare che quelli che pensava lontani, i professionisti e le imprese, non sono solo come riferimenti per fare fund-raising, non solo persone cui chiedere qualcosa per sé, ma persone con cui fare un percorso. Con gli altri si possono condividere dei percorsi veramente generativi e inediti; in fondo il volontariato è nato inedito. È figlio del non pre-costituito, del non già saputo, del provare, del mettersi a disposizione, del contribuire. Sarebbe bello che questo segnale che ho visto nel piccolo, diventasse qualcosa che ci aiuti a fare una compagnia più vasta. Secondo, rispetto alle istituzioni, siano esse religiose, pubbliche, economiche, sarebbe bello che il volontariato avesse un atteggiamento maggiormente propositivo e contributivo, che fosse percepito come una risorsa non per lo specifico che fa (l’aiuto ai disabili, ai profughi, agli anziani) e la sua funzione sociale, ma per la sua natura profonda, cioè per il suo atteggiamento nei confronti della vita. Il volontariato dovrebbe essere un compagno delle istituzioni che apre costantemente a ciò che non c’è, con l’atteggiamento di chi sa che quello che non c’è sarà bello, che il bello deve ancora venire.
Mentre qual è l’ultimo livello di cambiamento?
È il cambiamento economico. Mi sembra evidente che siamo di fronte ad un rischio di collasso, o probabilmente siamo già dentro il collasso. Noi perderemo il 10% del PIL, una crisi tre volte più vasta di quella del 2008, in cui si è perso il 3% a livello mondiale. In Italia, una società bloccata dal punto di vista dell’ascensore sociale e già spaccata in due (Nord e Sud), cosa succederà nelle dinamiche materiali? Anche in tal caso può esserci una deriva che alimenta le situazioni pericolose o patologiche, oppure potremo avere un passaggio più forte di cambiamento di paradigma. E allora potremmo costruire nuove forme di economia più partecipata, più equa, più giusta, dove vediamo meno produzioneconsumo e più generazione del valore. Un movimento generativo simile a quello che ha portato alla nascita del Terzo settore, negli anni ’60-70 del secolo scorso, ma che oggi non può essere più identificato solo con esso: un movimento che deve tenere dentro anche tutti gli altri attori di cui parlavo in un insieme in cui volontariato e Terzo settore possono essere, grazie alla loro esperienza, il lievito buono.
E quale obiettivo principale dovrebbe porsi questo movimento?
Penso che oggi, il vero spazio politico, economico, culturale in cui tutto ciò si possa giocare siano i beni comuni – dall’acqua alla scuola, dal welfare alla cultura, dall’ambiente ai trasporti, dalla connettività all’arte – poiché essi sono contemporaneamente luoghi di socialità, luoghi di economia, ma anche luoghi patrimonio, e non solo di conto economico. E qui il suggerimento che do al volontariato è di concentrarsi di più sul proprio patrimonio, non sulle attività: patrimonio materiale, immateriale, filosofico, di significato. Abbiamo bisogno di una classe dirigente che sappia cosa sia il patrimonio, un concetto che invita a pensare cosa lascerai; non è solo un problema di passaggio di ruoli, ma qualcosa di più profondo, bello, sfidante.
Se il volontariato oggi concretamente dovesse domandarsi da cosa ripartire per accompagnare questi cambiamenti, quali punti di forza suggerirebbe?
Sarebbe bello, ad esempio, che potesse guardare al volontariato spontaneo mobilitatosi dal nulla in questo periodo con affetto, cura, gioia, riconoscenza perché dovrebbe ricordargli la sua infanzia e, guardando a quell’ingenuità, potesse diventarne il genitore. Certo, significa aprire il potere, e non solo l’operatività, agli altri, a questi giovani; riacquistare autorità mettendo a disposizione il potere, e quindi le decisioni, gli orientamenti, le gerarchie. Se vogliamo andare sugli oggetti concreti di lavoro, ricordo che a Bergamo sono morti 5.000 anziani nelle case di riposo; significa che tale modello va superato, come sono stati superati gli ospedali psichiatrici nel ‘900. Chiediamoci se il volontariato possa contribuire all’apertura di un dibattito serio per superare questo modello, cioè l’idea che noi confiniamo in un luogo separato un’intera generazione. Chiediamoci se, prima ancora di una progettazione, c’è una visione rispetto ad un fatto innegabile, di tale portata, che già oggi rischia di essere rimosso. E ancora: chiediamoci se siamo in grado di prendere sul serio il fatto che i ragazzini hanno fatto i volontari oggi e aprire un dibattito con la scuola. Il volontariato può entrare nel dibattito su ciò che significa oggi riaprire la scuola, e avere una visione sul ripensamento del ciclo scolastico.
Come evitare, una volta terminata la spinta dell’emergenza, di cadere nel deserto della consumazione totale data dalla consuetudine?
Io spero che in questo caso non si giunga a tale deserto, poiché ciò significherebbe oggi la scomparsa stessa del genere umano. Io chiedo: perché non ci mettiamo di più quotidianamente a rischio? Perché il volontariato non si mette quotidianamente in una posizione di rischio? In questa situazione abbiamo fatto l’esperienza del rischio, lo abbiamo vissuto sulla pelle e si è generata vita. Perché il rischio ti fa cercare qualcuno, perché ti fa porre una domanda, perché ti fa sentire la paura, perché senti i sentimenti. E la vita senza rischio muore.
di Paola Springhetti, CSV Lazio
Johnny Dotti, vive da più di trent’anni in una comunità di famiglie a Carobbio degli Angeli (BG). Pedagogista e imprenditore sociale, è oggi presidente di “é-one abitare generativo” e amministratore delegato di “ON” impresa sociale.
Tra gli ultimi scritti di Jonny Dotti segnaliamo:
“Buono è Giusto” con M. Regosa, Luca Sossella Editore, 2015
“Con: dividere”, Luca Sossella Editore, 2018
“L’Italia di tutti” con A. Rapaccini, Edizioni Vita e Pensiero, 2019.
Ai cittadini è stato chiesto (e imposto con doverose norme restrittive) il cosiddetto “distanziamento sociale” utile per preservare la salute di tutti. In realtà abbiamo capito che, se da un lato occorre tutelare il “distanziamento fisico” ai fini sanitari, dall’altro occorre potenziare l’”avvicinamento sociale”, la “prossimità” tra le persone per irrobustire (e talvolta ricostruire) i legami sociali nella comunità locale e nelle microcomunità dei quartieri e degli isolati perché in questi mesi sono state messe a dura prova. Siamo persone singole, che si nutrono e vivono nella dimensione comunitaria e che è necessaria e vitale per tutti.
Diverse persone hanno sostenuto che nel prossimo futuro nulla sarà come prima, altri più cinicamente hanno pronosticato che non cambieremo poi molto. Credo invece che, a fronte delle tre emergenze sanitaria, economica e sociale che stiamo vivendo contemporaneamente, abbiamo la possibilità di ripensare (e quindi riprogettare) quale comunità vogliamo essere.
È una grande opportunità quella che abbiamo perché molti singoli, famiglie, quartieri, città, regioni e perfino nazioni hanno capito che nessuno può pensare di salvarsi da solo.
È un’operazione a forte valenza democratica perché, per essere affrontata, non può essere delegata solo a qualcuno, ma necessita la raccolta di tutti i cittadini di buona volontà e le organizzazioni da loro costituite (associazioni, cooperative, fondazioni, …), in una sorta di “chiamata partecipativa” alla costruzione del bene comune superando appartenenze, ideologie, primogeniture.
Insieme a queste organizzazioni di cittadini, gli enti pubblici devono esercitare il proprio ruolo di supporto nel governo della regia istituzionale e le imprese private devono sempre più praticare la propria funzione economica nella dimensione della responsabilità sociale.
Solo il sapiente gioco di squadra tra primo, secondo e terzo settore permetterà il coinvolgimento attivo e responsabile anche dei singoli cittadini, liberando così energie e creatività. La strategia deve essere quella di “essere estrattivi” nel senso di tirar fuori il meglio dai vari mondi a favore della comunità intera e di essere innovativi nella dimensione della sostenibilità in carenza di risorse.
Il volontariato milanese ancora una volta è stato presente e, nonostante le difficoltà, non si è tirato indietro: da una ricerca condotta dai CSV lombardi in corso di ultimazione ben il 55% del campione degli Enti di Terzo settore del territorio metropolitano ha organizzato attività specifiche in risposta all’emergenza, il 26% continuando le proprie attività ordinarie e il 74% aggiungendo o facendo attività nuove; solo il 21% ha interrotto le proprie attività.
Come abbiamo raccontato negli articoli del sito le attività sono state realizzate in autonomia, ma soprattutto in collaborazione con i Comuni, altre Associazioni, Parrocchie, Protezione Civile, ATS e anche con i CSV e le Imprese produttive e commerciali.
A fronte di questa ricchezza di presenza, ora il volontariato e tutto il Terzo settore, nella conclamata “società del rischio”, deve cominciare a darsi alcune piste di lavoro per la ripresa post crisi sanitaria ed economica rivendicando il proprio ruolo essenziale di “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” previsto dall’articolo 118 della Costituzione, ma anche nei processi di collaborazione con le istituzioni (e le imprese) nella definizione delle politiche locali.
In queste giornate ho raccolto numerosi stimoli nel dibattito interno a CSV Milano ed esterno, grazie ai quali inizio a suggerire alcune sfide e relative prime proposte da approfondire, utili per guardare al domani:
sempre dalla citata ricerca la principale problematica che gli ETS hanno rilevato nella cittadinanza è la solitudine di tante persone, non solo anziane. La socialità è un bene primario che va ancor più riconosciuto, facilitato e valorizzato. È uno dei collanti della comunità perché fruito collettivamente e non solo individualmente. Dobbiamo essere sempre più consapevoli dell’importanza non secondaria nella costruzione dellacoesione sociale, indispensabile nel costruire fiducia, relazioni e legami tra le persone (e tra queste e le istituzioni). Nel ricucire socialità siamo quindi costruttori di democrazia;
le problematiche rilevate, a seguire con maggior frequenza, sono l’aumento della povertà, la difficoltà nella gestione domestica e finanziaria, l’insorgenza di casi di depressione. In una società più coesa deve essere posto al centro il garantire l’inclusione di soggetti deboli cercando di ridurre le diseguaglianze. Occorre trovare rinnovate forme di intervento per essere vicini, prestare attenzione e cura ai più deboli che possono essere doppiamente esposti ai rischi sanitari, perché spesso meno informati e più isolati: i senza fissa dimora, gli immigrati, anziani, disabili, malati psichiatrici, carcerati, … Vanno investite risorse progettuali, economiche e materiali per non lasciare indietro nessuno;
la principale difficoltà incontrata in questi mesi segnalata dagli ETS nell’indagine è la carenza o mancanza di volontari a causa dell’impossibilità di impiegare i più anziani. In realtà la diponibilità di giovani e adulti è stata rilevante: solo nella città di Milano oltre 1.200 cittadini si sono proposti spontaneamente al Comune e CSV ha raccolto oltre 500 candidature nelle call aperte ad hoc a favore di 13 associazioni nell’ambito della piattaforma Volontari Energia per Milano. Il senso civile e solidale nella città metropolitana c’è, abbondante. Quello che dobbiamo imparare è come avvicinare queste disponibilità, come accompagnarle e sostenerle, come organizzarle rispettando interessi, tempi e caratteristiche peculiari. È una grande sfida per le organizzazioni accogliere il volontariato individuale per sua natura fluido e mobile;
il 50% dei soggetti rispondenti prevede la diminuzione delle entrate maggiore del 50%; il 42% ha convenzioni con enti pubblici, il 36% ha tutte le proprie attività in convenzione o accreditamento. In queste settimane sono apparse più in difficoltà le organizzazioni che hanno “monocomittenze”. Forse dovremmo accrescere la capacità di essere non solo multistakeholder ma anche avere una forte diversificazione delle entrate: non solo entrate pubbliche, non solo donazioni o contributi dai soci, non solo entrate da enti filantropici o dal mercato privato, ma un sano mix in modo tale da non essere dipendenti da uno o pochi soggetti e quindi essere meno vulnerabili se uno di questi va, per mille motivi, in crisi. Servirebbero anche forme contrattuali con gli enti pubblici non basati sulla mera prestazione, che espone al rischio di lavoro saltuario, ma su una progettualità sociale a tutto tondo;
gli Enti di Terzo Settore hanno ancor più sperimentato l’importanza del radicamento territoriale, l’essere punto di riferimento locale, e quindi essere riconosciuti dai cittadini per la propria peculiare azione. Solo grazie a questo sarà possibile coinvolgere i soggetti imprenditoriali e commerciali locali in progetti di valorizzazione delle loro expertise, le fondazioni di erogazione che dovrebbero sempre più sostenere l’impegno continuativo ed evolutivo delle organizzazioni e meno i singoli progetti volatili, e le istituzioni pubbliche. A questo proposito ricordo che il D.Lgs 117/17 Codice del Terzo settore esplicita nell’articolo 55 che le amministrazioni pubbliche assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore attraverso forme di co-progettazione, non solo nell’ambito storico della programmazione sociale di zona (L.328/00) ma in tutti i settori di attività di interesse generale del Terzo settore (immaginiamo quale potenzialità di partecipazione nella definizione di piani ambientali, culturali, sanitari, …);
dovremmo definitivamente superare il digital divide che zavorra il Terzo settore. Il limite si è evidenziato in modo conclamato: difficoltà ad avviare procedure di lavoro da remoto perché ordinariamente non disponibili archivi in cloud, mancanza di connessioni veloci, strumentazioni, periferiche mobili e software dedicati, edifici senza sistemi di domotica avanzata, inefficienze dei sistemi energetici e climatici, … Ma soprattutto manca la cultura e l’esperienza che molte attività si possono realizzare anche a distanza con lo scopo di raggiungere più persone (formazione online, ma anche concerti e conferenze) o incontrarsi riducendo costi e tempi di spostamento (chiamate audio e video multiutenti), avere economie di scala e maggiore sostenibilità energetica. Diverse organizzazioni hanno cercato in questi giorni soluzioni tampone, ma occorrerà un investimento massiccio sia progettuale che di sviluppo organizzativo per rendere moderno il privato sociale;
dovremmo ripensare le nostre governance democratiche rendendole più snelle ed efficaci, capaci di prendere decisioni in tempi brevi ma anche in modo collegiale, garantendo i periodici ricambi, considerando i giovani, che sempre più si stanno affacciando nei diversi Enti del Terzo settore: le giovani generazioni hanno un approccio meno ideologico, più pragmatico e cercano di coniugare con equilibrio idealità (valori), risorse (umane ed economiche), impegno condiviso (cooperare) e tecnologia. Serviranno inoltre organizzazioni del lavoro più flessibili in cui il lavoro agile, laddove possibile, è la norma, perché impostate sui risultati più che non sulla presenza oraria.
In questo scenario e con queste possibili prospettive, quale ruolo per i Centri di Servizio al Volontariato? Sempre nella ricerca citata alla domanda “da ora in avanti, sia rispetto all’emergenza che nell’ordinario, quale tipo di supporto ritieni più urgente richiedere al CSV?” le risposte in ordine di priorità sono state: riflessioni e proposte su come il volontariato si trasformerà nel prossimo futuro, consulenza su normativa in generale e specifici decreti sull’emergenza, supporto al fundraising, ricerca di nuovi volontari, consulenza su sicurezza dei volontari (assicurazioni, gestione rischi e paure ecc.), facilitazione delle relazioni con amministrazioni pubbliche per progetti comuni, reperimento dispositivi di sicurezza, eventi di promozione della cultura del volontariato e della cittadinanza attiva, facilitazione della relazione con altri ETS per progetti comuni, consulenza su ri-programmazione e ri-progettazione delle attività, diffusione di notizie e appelli attraverso sito web, social network, newsletter ecc., formazione su gestione piattaforme on line e attività in remoto, formazione per volontari già attivi e per nuovi volontari, facilitazione della relazione con imprese per progetti comuni.
Sia la ricerca che le diverse interlocuzioni di questi mesi con moltissimi volontari e dirigenti ci restituiscono la conferma che il nostro ruolo è stare a fianco del volontariato milanese sostenendolo nel proprio agire, nel rispondere alle sette sfide prima descritte, e quindi soprattutto nell’intraprendere processi di sviluppo organizzativo e territoriale. Questo crediamo sarà possibile grazie all’offerta di supporti infrastrutturali e opportunità di servizi di qualità e flessibili, ma in modo particolare nel favorire connessioni e alleanze con i soggetti dei diversi mondi per assumere esigenze e progettualità comuni.
È una prospettiva collaborativa, evocata anche dallo scrittore Enrico Brizzi: “Non so se andrà tutto bene, né se l’emergenza ci restituirà in qualche modo migliori alla vita civile, ma d’una cosa son certo: la differenza tra un popolo e un ammasso di gente sta nella capacità di declinare il pensiero al plurale, silenziando l’io per dar voce al noi”.
Guardare avanti è la parola d’ordine di ora. Guardare avanti perché ancora non siamo “fuori dal guado” e serve energia positiva e costruttiva per non vanificare la fatica che abbiamo fatto fin qui per lottare contro questo virus. Guardare avanti perché la strada è ancora lunga e dovremo imparare a convivere con un’alternanza di picchi di infezione, con relative restrizioni sociali, e rallentamenti dei contagi con allentamenti del contenimento. Ma soprattutto guardare avanti perché niente sarà più come prima.
Giuliano Ferrara qualche giorno fa diceva che non concorda con chi considera questa situazione una opportunità di catarsi, di miglioramento della società a trecentosessanta gradi, perché a lui va già benissimo così come è: trova che il mondo di oggi gli corrisponda perfettamente. Ma qui non si tratta di giudicare quello che avevamo e pensare di tornarci ripristinando un equilibrio da non compromettere: l’equilibrio è già stato scardinato e si tratta di capire cosa ne consegue.
C’è una società nuova, da comprendere e accompagnare verso un modo nuovo di stare insieme. Ci sono nuove fragilità da individuare, ci sono nuovi poveri, con volti, caratteristiche, esigenze, linguaggi per ora sconosciuti. Nuovi problemi: sanitari, economici, sociali, che dovranno essere incontrati, compresi, gestiti da tutti: primo, secondo e terzo settore insieme. Oggi è il momento di concentrare l’azione sulla gestione della pandemia, ma anche orientare il pensiero verso la progettazione della ripartenza.
I CSV sono stati confermati, dalla riforma del Terzo settore quali “agenti di sviluppo del territorio”: in grado di tessere relazioni virtuose tra diversi soggetti per far nascere risposte efficaci ai bisogni delle comunità. CSV Milano, forte di questa rinnovata investitura legislativa, durante questa emergenza legata alla pandemia sta cercando di assumere questo ruolo di cerniera. Nel progetto #Italiakiama, nato da un’idea di Young Digitals per Kia Motors insieme a Supermercati24, il Centro di servizi per il volontariato Città metropolitana di Milano ha affiancato al mondo profit l’amministrazione pubblica (i comuni di Milano e di Opera) e il Terzo settore (Fondazione progetto Arca Onlus, Uildm sezione di Milano e Arci Milano e i loro partner in Aiutarci) in un gioco di squadra virtuoso per i fragili delle due città.
È solo un esempio, l’ultimo di una lunga serie di azioni che, anche in questo periodo, vede CSV Milano facilitare il dialogo e la connessione tra mondi differenti, uniti, attraverso il Centro, nel dare risposte immediate ed efficaci ai bisogni del momento: spesa a casa per anziani e persone con disabilità, volontari per le associazioni che stanno operando, recupero delle materie prime di esercizi commerciali chiusi, rimodulazione delle attività di formazione e consulenza attraverso l’utilizzo di nuovi strumenti on-line.
È con questa esperienza nel favorire le collaborazioni, con questa modalità di agire in sinergia con le potenzialità dei territori, con questa capacità di essere corpi intermedi tra diversi altri attori, che CSV Milano sta guardando avanti, forte del sostegno di tutti coloro che gli consentono di esserci per poter agire il proprio ruolo. Fondazione Cariplo e Fondazione Banca del Monte di Lombardia, con il loro impegno economico unico e insostituibile nel sostenere i Centri di servizio lombardi, possono trovare nei CSV una spalla fondamentale nella ricucitura delle fratture che questo momento traumatico sta generando. Insieme, uno accanto all’altro, fondazioni di origine bancaria, fondazioni comunitarie, Forum Terzo settore e Centri di servizio per il volontariato possono rappresentare un’alleanza vincente nel riprogettare, insieme alle istituzioni, nuove e rinnovate comunità.
E allora rimbocchiamoci le maniche, e guardiamo avanti insieme.
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È ancora presto per prevedere compiutamente cosa insegnerà al Terzo settore e al popolo dei volontari e cittadini attivi questa emergenza del Covid-19. Ma Carola Carazzone sabato, nell’articolo “Le fondazioni filantropiche? Adesso sostengano organizzazioni, non progetti”, incomincia a mettere un punto fermo, a mio parere molto importante. Carazzone evidenzia come, a partire dalla crisi che stiamo vivendo, le fondazioni filantropiche possano collaborare con gli enti del Terzo settore con modalità diverse e innovative; e propone una serie di esempi concreti.
La stessa sera David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, ha posto l’accento sull’urgenza di salvare la salute, poi il lavoro e poi anche la democrazia. Ma «fra le condizioni per l’esistenza e il funzionamento di un sistema democratico, ci ricordava già nel 1982 la vicepresidente della Camera Maria Eletta Martini, (…) il volontariato può svolgere un ruolo importante per lo sviluppo e il rafforzamento della democrazia. (…) Il volontariato, in questa prospettiva, è una strada di crescita e di presenza civile di persone che, talvolta anche inconsapevolmente diventano via di mutamento sociale e di nuova cultura, che si fonda sulla solidarietà e la corresponsabilità ai problemi dell’altro; è un modo corretto di essere della democrazia, in un mondo in cui esistono “nuove povertà”, o, come si dice, luoghi di “sofferenza sociale”, che sfuggono alle statistiche».
Recentemente il D.Lgs 117/17 Codice del Terzo settore esplicita nell’articolo 55 che le amministrazioni pubbliche assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore attraverso forme di co-programmazione non solo nell’ambito storico della programmazione sociale di zona (L.328/00) ma in tutti i settori di attività di interesse generale del Terzo settore (immaginiamo quale potenzialità di partecipazione nella definizione di piani ambientali, culturali, sanitari, …).
Ora il volontariato e tutto il Terzo settore nella conclamata “società del rischio” potrebbero incominciare a porsi alcune piste di lavoro per la ripresa post crisi sanitaria ed economica rivendicando il proprio ruolo essenziale di “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” previsto dall’articolo 118 della Costituzione, ma anche nei processi di collaborazione con le istituzioni nella definizione delle politiche locali.
Inizio a suggerire alcune prime proposte da approfondire in queste giornate utili per guardare avanti, oltre a quelle esposte da Carazzone riguardo a una rinnovata alleanza tra Fondazioni filantropiche e Enti di Terzo Settore:
la socialità incomincia a mancarci: si suona e si applaude dai balconi. Incontrarsi e aggregarsi, fare festa e fare musica, teatro e yoga, curare un giardino pubblico o occuparsi dei diritti civili è essenziale per una comunità, come lavorare ed essere in buona salute. È un bene primario che va ancor più riconosciuto, facilitato e valorizzato. È uno dei collanti della comunità perché fruito collettivamente e non solo individualmente. Dobbiamo essere sempre più consapevoli dell’importanza non secondaria nella costruzione dellacoesione sociale, indispensabile nel costruire fiducia, relazioni e legami tra le persone (e tra queste e le istituzioni). Nel costruire socialità siamo quindi costruttori di democrazia;
in una società più coesa sarà più facile garantire l’inclusione di soggetti deboli. In questi giorni difficili centinaia di migliaia di operatori e volontari del Terzo Settore hanno continuato in silenzio, pur con le necessarie precauzioni sanitarie, ad essere vicini, a prestare attenzione e cura ai più deboli che possono essere doppiamente esposti ai rischi sanitari, perché spesso meno informati e più isolati: i senza fissa dimora (che notoriamente non possono stare a casa, perché non hanno casa), gli immigrati, anziani, disabili, malati psichiatrici, … molti di questi “ultimi” si stanno ammalando. È giusto applaudire agli operatori sanitari pubblici, ma altrettanto giusto sarebbe essere consapevoli e ricordare chi opera da cittadino attivo nel sociale e nel sociosanitario retto in gran parte dagli enti di Terzo settore, anche rivendicando pari utilizzo di ammortizzatori sociali. Ma prima ancora servirebbero forme contrattuali con gli enti pubblici non basati sulla mera prestazione che espone al rischio di lavoro saltuario, ma su una progettualità sociale a tutto tondo;
dovremmo definitivamente superare il digital divide che zavorra il Terzo settore. Il limite si è evidenziato in modo conclamato: difficoltà ad avviare procedure di lavoro da remoto perché ordinariamente non disponibili archivi in cloud, mancanza di connessioni veloci, strumentazioni, periferiche mobili e software dedicati, edifici senza sistemi di domotica avanzata, inefficienze dei sistemi energetici di riscaldamento e condizionamento, … Ma soprattutto manca la cultura e l’esperienza che molte attività si possono realizzare anche a distanza con lo scopo di raggiungere più persone (formazione online, ma anche concerti e conferenze) o incontrarsi riducendo costi e tempi di spostamento (chiamate audio e video multiutenti), avere economie di scala e maggiore sostenibilità energetica. Diverse organizzazioni hanno cercato in questi giorni soluzioni tampone, ma occorrerà un investimento massiccio sia progettuale che di sviluppo organizzativo per rendere moderno il privato sociale;
in questi giorni appaiono più in difficoltà le organizzazioni che hanno “monocomittenze” soprattutto se non garantite. Forse dovremmo accrescere la capacità di essere non solo multistakeholder ma anche avere una forte diversificazione delle entrate: non solo entrate pubbliche, non solo entrate da enti filantropici, non solo donazioni o contributi dai soci, non solo mercato privato, ma un sano mix in modo tale da non essere dipendenti da uno o pochi “mercati” e quindi essere meno vulnerabili se uno di questi va, per mille motivi, in crisi. La diversificazione aiuterà anche a essere più riconosciuti e radicati nel proprio territorio di riferimento;
dovremmo ripensare le nostre governance democratiche rendendole più snelle ed efficaci, capaci di prendere decisioni in tempi brevi ma anche in modo collegiale, garantendo i periodici ricambi. Serviranno inoltre organizzazioni del lavoro più flessibili in cui il lavoro agile, laddove possibile, è la norma, perché impostate sui risultati che non sulla presenza oraria;
Rispetto a quest’ultimo punto, tra le diverse risorse a disposizione utili anche per affrontare i precedenti, dobbiamo considerare i giovani, che sempre più si stanno affacciando ai diversi Enti del Terzo settore: le giovani generazioni hanno un approccio meno ideologico, più pragmatico e cercano di coniugare assieme in equilibrio idealità (valori), risorse (umane ed economiche), impegno condiviso (cooperare) e tecnologia.
Oltre che ai virologi e sanitari, agli economisti e imprenditori, oggi dobbiamo affidarci anche agli operatori e volontari del Terzo settore e soprattutto all’energia e creatività dei giovani, per affrontare nella “società del rischio” nuovi e moderni modi per stare nei nostri luoghi in modo propositivo e per costruire l’evoluzione della società democratica del futuro.
Negli anni ’90 la dimensione della Comunità è stata posta al centro di un serrato confronto esperienziale e culturale.
Era una dimensione in forte crisi a fronte allo sgretolamento dei rapporti sociali, all’individualismo, alla solitudine, ai problemi delle periferie urbane, … problemi di allora?
Lo sono diventati ancor di più oggi con la crisi economica del 2008 che, come ci ricorda Mauro Magatti, è essenzialmente una crisi di valori, maturata negli anni precedenti e poi manifestatasi nei primi anni 2000 con il tracollo finanziario da cui non ne siamo ancora usciti …, ma non siamo ancora usciti, neppure dalle cause che l’hanno innescata.
La comunità è una dimensione che deve essere ripensata e riformulata sulla base di riflessioni che fanno riferimento a piani differenti che interagiscono nella vita delle persone e tra le persone (identità, relazioni, riferimenti spazio-temporali, progettualità, …). Senza idealizzare la comunità, essa stessa piena di contraddizioni, conflitti, prevaricazioni, …
Senza dimenticare che oggi non si è solo “comunità locale”, ma ognuno di noi grazie alla globalizzazione delle relazioni e delle possibilità di comunicazione in tempo reale (internet, smartphone, viaggi più facili) può vivere forti appartenenze a “comunità globali” con differenti identità culturali, professionali, ideali, … anche stando a migliaia di chilometri di distanza. Sia comunità che costruiscono comunità inclusive che comunità che costruiscono esclusione.
Occorre (ri)imparare a vivere e lavorare nella comunità. Non esiste una disciplina, una scienza specifica che studia la comunità. Riflettere e capire la comunità necessita di un approccio olistico e interdisciplinare.
Fare comunità è questione di ….
antropologia, come le collettività umane si manifestano
sociologia, come gli uomini si organizzano per vivere nella società
psicologia, come le relazioni umane si incontrano e si scontrano, si sostengono e si modificano
economia, come lo sviluppo imprenditoriale connota le peculiarità di un ambiente e di gruppi di persone
politica, come si concretizzano le politiche sociali redistributive delle ricchezze locali
architettura e urbanistica, come si abita un territorio geografico, con storia e futuro
cultura, come gli uomini raccontano la propria storia ed esistenza in riferimento alla propria comunità.
Segnalo alcuni riferimenti nati negli anni ’90.
Augé Marc, antropologo, ci ricorda l’importanza identitaria dei luoghi in cui si sviluppa comunità (la percezione dello spazio e del tempo). Ma attenzione, se lo spazio e l’uso del tempo risultano sempre uguali pur in diversi contesti, si hanno dei “nonluoghi”: il contrario della dimora, della residenza, dei luoghi della comunità, di un “luogo”.
I “nonluoghi” sono le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, autogrill, stazioni, aeroporti), i mezzi di trasporto, i supermercati, gli alberghi delle grandi catene internazionali, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati.
I “nonluoghi”, sono gli spazi dell’anonimato, ogni giorno più numerosi, frequentati da individui diversi ma considerati simili, ma soli.
Zygmunt Bauman, noto sociologo mondiale, ci segnalava come nel mondo dell’insicurezza globale, tornava con forza il bisogno di comunità, come strumento per difendersi.
La continua ricerca di equilibrio tra libertà e condivisione, tra individuo e comunità, è il destino dell’uomo verso la realizzazione di una vita soddisfacente (che sia potente e affermato, oppure povero e sconfitto).
Ma attenzione, la ricerca di una “propria comunità locale” impersonificata da un territorio abitato dai propri membri è la via d’uscita oppure non rischia piuttosto di divenire un “ghetto volontario”?
Eppure è nella sicurezza della propria identità, e del riconoscersi in essa, che si può permette il dialogo tra culture diverse. Stiamo infatti verificando 20 anni dopo che non è facebook il luogo del dialogo tra culture diverse.
La psicologia di Comunità, il lavoro di comunità, non è solo una pratica sociale che prevede l’impiego di modelli e metodologie, ma anche un modo di concepire il lavoro sociale.
Lo sviluppo di comunità permette di sostenere i processi di responsabilizzazione dei membri di una comunità e l’impiego delle loro competenze/risorse per la soluzione dei problemi.
Attivare collaborazione e partecipazione tra i cittadini, promuovere relazioni fiduciarie, sostenere il capitale sociale, sono tutte azioni con una portata che va oltre il contenuto specifico, e propongono una vera a propria visione della società.
Mai come negli ultimi anni il tema dello sviluppo locale ha preso atto della varietà di assetti economici, di cui è popolato il nostro Paese. Eppure questa ricchezza è stata ai margini delle politiche economiche istituzionali. C’è da percorrere un cammino verso il riconoscimento del ruolo insostituibile svolto dalle comunità locali e dai loro protagonisti: capaci contemporaneamente di relazioni locali e di reti immateriali globali, di produzione economica e di prossimità e coesione sociale.
Ad esempio, il 20% della popolazione italiana vive nelle 4 grandi aree metropolitane (Roma Milano Napoli Torino), così come il 20% della popolazione abita le aree interne però rappresentate dal 50% dei Comuni italiani. Eppure le politiche di sviluppo economico, differenziate per aree territoriali, in Italia stentano a svilupparsi.
Richard Sennet ci sollecitava a ripensare le relazioni sociali e le politiche di welfare rileggendo la propria vita e le proprie esperienze.
Occorre porre al centro le modalità di formazione delle identità individuali e collettive a partire dal rispetto di sé e degli altri. Spesso gli utenti del welfare si lamentano di essere trattati con poco rispetto. Ma la mancanza di rispetto che sperimentano non è dovuta semplicemente al fatto che sono poveri, vecchi o malati. La società moderna manca di manifestazioni concrete ed efficaci di rispetto e di riconoscimento per gli altri.
Come tenere insieme la garanzia dell’uguaglianza e il rispetto delle differenze di ciascuno?
Occorre ripensare un welfare differenziato che permetta a chi riceve sostegno sociale di percepirsi come soggetto che a pieno titolo partecipa alla definizione delle proprie condizioni di vita.
A fronte di una netta deterioramento della qualità urbanistica, ambientale e sociale di quasi tutte le città (sia nei cosiddetti paesi sviluppati che “in via di sviluppo”) negli anni ’90 c’erano i primi urbanisti futurologhi, come Raymond Lorenzo, che indicavano che sarebbe stato necessario costruire città “sostenibili” prestando attenzione alla qualità dell’ambiente urbano e naturale, ma soprattutto alla comunità locale, da coinvolgere direttamente nelle decisioni progettuali urbanistiche e architettoniche, perché soli i cittadini che vivono un territorio conoscono le loro esigenze e possono dare indicazioni utilissime agli architetti per predisporre soluzioni veramente vivibili.
E poi dentro ogni quartiere vi sono mille storie che costruiscono la vera storia e la cultura di un quartiere. Scandiscono la vita della comunità e la quotidianità dei suoi abitanti: tra gioie, passioni, collaborazioni, ma anche ansie, soprusi, paure e disperazioni che consentono all’umanità, che popola il dedalo di vie, case, palazzi del mondo, di costruire culturalmente le varie dimensioni comunitarie. In ogni territorio/comunità del mondo.
Negli anni ’90 questi erano sette approcci paralleli, di fatto separati.
Poi è venuta la grande e lunga crisi.
Poi la diffusa consapevolezza dell’emergenza ambientale; anche se già nel 1992 si tenne a Rio de Janeiro la prima Conferenza mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo che produsse alcuni accordi internazionali tra cui la famosa Agenda 21.
Oggi finalmente si coglie che, solo in una prospettiva integrata di Sviluppo Sostenibile, forse si può trovare l’equilibrio tra individuo e comunità.
Erano e sono sette approcci diversi: solo perdendosi in mille storie e situazioni locali e globali e solo riallacciando con pazienza i diversi fili disciplinari, comprenderemo il significato della “nostra comunità” e potremo riconoscere il valore delle comunità del mondo.
In questo contesto, i governi dei 193 Paesi membri dell’ONU nel settembre 2015 hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. È un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità che prevede 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) con 169 target e più di 240 indicatori.
La situazione è oggettivamente molto complessa e pericolosa per noi e per il nostro pianeta e, come ci ricorda Enrico Giovannini portavoce dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile, il rischio è che noi ci sediamo e ci culliamo di Retrotopia: è il guardare il passato per rassicurarci circa un futuro incerto e fonte di preoccupazione. Non vi è dubbio che molto spesso oggi chiudiamo gli occhi di fronte a quanto avviene (il terrorismo o le minacce nucleari coreane o il corona virus) e ripensiamo ad anni passati che crediamo siano stati più rassicuranti. Non è per niente vero.
Ma di sicuro il nostro futuro sarà pieno di shock perché stiamo consumando troppo il nostro mondo che non riesce a rigenerarsi a sufficienza.
Ma l’Utopia sostenibile è che nessuno rimanga indietro grazie al fatto che vi sia una vera sinergia tra i quattro capisaldi della sostenibilità: ambientale, sociale, economica e istituzionale.
E questo non può che avvenire se non a partire dalla terra, dai luoghi costruiti o naturali.
In passato si identificava lo spazio con la urbs, in termini materiali, città delle pietre, in contrapposizione con lo spazio naturale.
Più recentemente, a seguito della crisi economica/finanziaria/valori ricordata, da un lato si sono moltiplicati i “nonluoghi” anonimi, dall’altro sono via via emersi luoghi via via abbandonati che sono tornati ad essere spazi senza vita. Pensiamo alle caserme vuote, alle scuole chiuse per denatalità, a capannoni e industrie dismesse, a strutture degli ordini religiosi non più utilizzate, ai beni confiscati alla criminalità organizzata, …
Oggi serve una nuova rigenerazione urbana che a fianco del recupero edilizio porti anche un recupero di socialità.
Oggi serve una nuova progettualità, carica di comunità, utile per far rivivere gli spazi vuoti e abbandonati per farne luoghi veri, vivi, pieni di senso.
Secondo me non è un caso che in questo quartiere di Porta Nuova gli unici due luoghi antichi e abbandonati sono stati recuperati dal Terzo settore: l’ex magazzino ferroviario ristrutturato dalla Fondazione Catella e la trattoria e poi Albergo Isolabella di cui si è appena avviata la ristrutturazione per farne VOCE a cura di Ciessevi.
Il Terzo settore ha la sensibilità e la capacità di far rivivere “spazi” per trasformali in “luoghi”.
Il luogo si stacca da una logica solo geografica e corrisponde ad una identità socio-culturale. La Civitas. La Città delle anime, fatte di persone, città fatte di relazioni. I territori in questa logica, sono di fatto l’elemento in cui si sperimenta il nuovo, dove si cerca di compenetrare ambiente costruito ed ambiente naturale, sono il contenitore dove le innovazioni sociali vengono messe in atto. Sono laboratori di sperimentazioni in cui si prova a dare risposte nuove ai bisogni emergenti. Ma i luoghi non sono solo contenitore di qualcosa che accade, sono anche motore di quel qualcosa che accade.
Il luogo vero attrae esigenze e bisogni, capitali e risorse. Che non sono di per sé immediatamente disponibili. Sono esigenze e risorse che per essere disponibili e per essere messe a frutto devono essere mediati da persone e da organizzazioni.
Nel passaggio da spazi a luoghi si viene a creare l’economia di relazioni. Dove la dimensione relazionale è l’infrastruttura del valore che quei soggetti economici del territorio (istituzionali, di profitto o di donazione) possono produrre.
E la dimensione relazionale è sense making. Dà senso a ciò che si fa. E dà energia all’azione. Un conto è dire “faccio cose, vedo gente”. Un conto è dire faccio cose che portano, nel lungo periodo, ad un certo valore aggiuntivo. Sono prospettive completamente diverse, non solo in termini soggettivi.
Pensare assieme i luoghi aiuta ad abitarli. Non è questione di qualcuno che viene e ti legge il tuo territorio. Ma è la comunità e chi abita quei luoghi che si domanda e legge e riflette su sé stessa. Costruire una visione strategica di lungo periodo aiuta ad abitare i luoghi. Abitarli con intenzionalità è riuscire a costruire una visione strategica, anche in termini di creatività e di impatto sociale. Intenzionalità è: voglio agire un cambiamento, cioè voglio cambiare la connotazione e la produzione di valore di quel luogo. E scelgo di farlo, non da solo.
Come ci ricordano recentemente Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, il luogo è legato a 3 concetti: l’innovazione sociale, l’imprenditorialità e lo sviluppo.
l’innovazione sociale si nutre dei territori, dei quartieri e delle periferie come oggetti geografici in cui si attivano processi di innovazione sociale. processi che tentano, a partire dalle risorse di cui quel territorio dispone, di rispondere ai bisogni che emergono
il successo imprenditoriale è correlato alla dimensione di luogo. Non sono le imprese competitive a rendere il luogo competitivo. La dimensione di contesto oggi è fondamentale e in qualche modo va misurata e valutata.
lo sviluppo si lega ai luoghi perché attraverso qualità relazionali e norme sociali si riesce a fare sviluppo. (Sviluppo nel senso della definizione di Zamagni – togliere i viluppi, togliere le catene che legano un territorio rispetto alla sua capacità di produrre valore). Capacità di produrre sviluppo è la capacità anche di contrastare le disuguaglianze di tipo sociale, economico, ecc
Ma oggi le comunità hanno bisogno di luoghi ma anche di infrastrutture sociali, cioè di luoghi che diventano a loro volta moltiplicatori. Un luogo diventa infrastruttura sociale quando:
è ad uso comune, non c’è esclusività, è uno spazio fatto di relazioni, connotato da apertura, luogo in cui nessuno è escluso
è rigenerato esso stesso dai legami sociali di chi lo vive e lo popola
ha la capacità di generare comunità, non sono estrattivo per produrre valore esclusivo, ma mette a frutto e restituisce moltiplicato.
Tutto questo possiamo leggerlo in quei luoghi capaci di trasformare, vitalmente, nel lungo periodo anche il contesto intorno.
Questo è quello che possiamo augurare a VOCE e a tutti coloro che vorranno collaborare a costruirlo insieme.
Marco Pietripaoli
Direttore CSV Milano
Febbraio 2020
Piccola bibliografia di riferimento
Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 1993 Zygmunt Bauman, Voglia di Comunità, Laterza, Bari 2001 Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi, Manifesto per lo sviluppo locale, Dall’azione di comunità ai Patti territoriali, Bollati Boringhieri, Torino 1998 Enrico Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, Bari 2018 Papa Francesco, Laudato si’. Sulla cura della casa comune, Piemme 2015 Mauro Magatti, Cambio di Paradigma. Uscire dalla crisi pensando al futuro, Feltrinelli, Milano 2017 Nagib Mahfuz, Il nostro quartiere, Fertrinelli, Milano 1989 Elvio Raffaello Martini, Fare lavoro di comunità. Riferimenti teorici e strumenti operativi, Carocci, Roma 2003 Lorenzo Raymond, La città sostenibile. Partecipazione, luogo, comunità, Eleuthera, Milano 1998 Ennio Ripamonti, Collaborare. Metodi partecipativi per il sociale, Crocci Faber, Roma 2011 Marianella Sclavi e Lawrence Susskind, Confronto creativo. Come funzionano la co-progettazione creativa e la democrazia deliberativa. Perché ne abbiamo bisogno, IPOC, Milano 2016 Richard Sennet, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, Il Mulino, Bologna 2004 Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Egea, Milano 2019
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